“Finché le leggi della matematica si riferiscono alla realtà,
non sono certe, e, finché sono certe, non si riferiscono alla realtà”
Albert Eistein, Sidelights on Relativity 1922
ETNA TRA TRADIZIONI E FRIZIONI
Si parla sempre più spesso dei vini dell’Etna: vincono grappoli e
centesimi, i prezzi salgono vertiginosamente e tutte le grandi aziende italiane
sono lì, a fare la corsa all’oro su à Muntagna da conquistare. Unica certezza:
c’è tanta confusione. Qui non ci sono risposte a questo caos calmo, ma ci
sono spunti di riflessione per alimentare questo caos e poi andarsi a cercare
da soli le risposte, in Sicilia.
“Il film si scrive con la luce” (Fellini):
appunti del Direttore della Fotografia.
A’ Muntagna mi avrebbe protetto. Così è stato. La montagna è
materna, ma di quelle mamme di una volta, che ti allattano col seno anche se
hai già imparato a camminare. Me la immagino così: la madre col grembiule
sporco di sugo, allacciato intorno al vestito comodo a fiori che usa per casa,
coi bigodini in testa ma sempre il trucco fatto, anche se non la deve vedere
nessuno. Ve la riuscite ad immaginare pure voi? Intendo: quelle madri di un
tempo, appese al filo del telefono della Sip, che mentre girano il sugo con
mestolo, parlano delle analisi del nonno, delle corna della vicina di casa e
delle offerte al supermercato. Le mamme di quelle “questa casa non è un
albergo” o “a tavola non si vede la televisione”. Quelle che al figlio maschio
fanno la porzione più abbondante di lasagna, perchè lo trovano “sciupato”. Le
madri quando ancora facevano le madri, invece che le amiche. Quelle madri
di cui tua nonna è l’ultima di quella generazione di madre. Lei è presente, ti
protegge, ti ama incondizionatamente.
Non fatevi trarre in inganno dal fatto che io, apparentemente, mi sia persa in
divagazioni senza ancora aver accennato al vino. Solo apparentemente,
tuttavia. Ci siamo fatti fregare dalla fretta, dalla sensazione di non avere mai
“abbastanza tempo”. Ci siamo fatti fregare dall’illusione che se le informazioni
viaggiano alla velocità dell’etere, ingrassate a livello esponenziale, e
googlizzate alla portata di tutti, a conti fatti siamo più informati. Ci siamo fatti
fregare. Se è vero, infatti, che la quantità delle informazioni è aumentata a
dismisura in modo inversamente proporzionale al tempo che ci sembra
sempre più sfuggire di mano, la fretta ci impone solo di valutare se una
informazione sia utile o meno: utile? Lettura veloce. Inutile? Via, nel cestino
(icona in base sulla scrivania del laptop del cervello).
Abbiamo davvero imparato qualcosa? Cosa ci è rimasto dentro? Un file
salvato in PDF sullo schermo che non riapriremo mai, come un vestito
comprato ai saldi e messo nell’armadio ancora con l’etichetta, che ci
dimenticheremo fino al cambio di stagione senza averlo mai indossato? Si
risolve tutto nella gratificazione di aver “consumato” un momento, ed è
l’approccio consumistico del momento che crea una netta differenza tra un
file salvato nel computer, e quel momento che ci ricorderemo per sempre,
seppure era solo una “questione momentanea di un momento”, ovvero la
nostra Ricerca del Tempo Perduto.
“Ognuno è il film che fa, e ognuno fa il film che è in quel momento”
(Pieraccioni): note di regia.
Quel pomeriggio, mentre ero affacciata al balcone dell’albergo di Randazzo,
ho deciso che quell’esatto momento meritasse di essere fissato, come una
polaroid. Erano i primi di marzo, l’Etna era incappucciato di neve, ma il cielo
era terso e c’era un caldo lieve, che ti avvolgeva come un alito. Mi ero
immaginata la Montagna mille volte, ogni singola volta sbagliando
evidentemente, nella mia testa era diversa. L’avevo immaginata come nei
disegni illustrativi dei sussidiari delle scuole elementari, ovvero come una
montagna: eppure ero li, in quota, sull’Etna, e non avevo la sensazione di
starci sopra tanto ero confusa da quelle lingue di terra, dalla fisionomia
irregolare dei profili rocciosi, dal quel senso di vuoto che ti fa perdere il senso
della misura, delle distanze.
Quello che mi ha colpito arrivando sull’Etna sono i colori. La luce. Qui il cielo
è diverso, sembra dipinto da un Dio diverso. La luce non è accecante,
piuttosto è garbata, come una voce sussurrata e rassicurante. Mi ha ricordato
Monet, in Impression, soleil Levant, dove il pittore dà perfettamente la
sensazione di luce, ma di una luminosità trasognante, trasparente, quasi
pigra.
Appoggiata sul davanzale di quel balcone, afflitta da quella sensazione,
sospesa nel vuoto di quel silenzio al quale non ero abituata, sono stata
sommersa da mille pensieri veloci che saranno durati non più di tre secondi
credo. Affascinante, non trovate? Non vi fa sentire dio, per un momento, che
il vostro cervello sia in grado di elaborare in così breve tempo ben due fogli
A4 di pensieri ad alta velocità? Ci avete mai pensato? No. Sapete perchè?
Avete mai notato che quando fate un viaggio su di un treno veloce che spinge
fino a 300 chilometri orari, come quando prendete un interregionale a 100
km/h, non avete la sensazione di andare tre volte più veloci, ma avete solo la
certezza di arrivare prima. Su quel balcone ricordo che sono stata divorata da
mille pensieri nel rielaborare quei giorni trascorsi li. Erano giorni strani, si
avvertiva nell’aria. Non sapevo, ingenuamente, che appena il giorno dopo la
mia vita sarebbe cambiata. La vita di noi tutti, sarebbe cambiata. Mi ripromisi
che non appena la bolla nella quale ero stata intrappolata da quel 9 Marzo
fosse scoppiata, avrei ricominciato proprio dall’Etna, da dove mi ero persa.
A luglio sono partita di notte con la mia Smart, appena staccato di lavorare,
direzione Milo. Sarei arrivata la mattina per le otto, dove a Caselle mi avrebbe
aspettato Salvo. Poi avrei incontrato il giovane Benanti, Marco De Grazia,
Pappalardo e l’amico Beppe Russo. Con loro abbiamo aperto il vaso di
Pandora, senza peli sulla lingua, senza troppe cerimonie. Di quelle
conversazioni, buona parte rimarrà “cosa mia”, come quella polaroid scattata
dal balcone dell’albergo di Randazzo. Quello che segue: l’odore che mi è
rimasto addosso. Rinuncio a qualsivoglia inferenza sillogistica, perché mai,
come in questo caso, ha fallito il Tertium non datur, e mi muoverò sul filo
‘sfocato’ della logica del fuzzy. Per questo non parlerò del punto A, né del
punto B… ma di tutto quello che c’è nel mezzo. Parlerò del viaggio con mille
voli pindarici, confusi. Perché di confusione stiamo parlando. Sbaglio?
Messa in scena e spazio scenico.
Qui sull’Etna, anche il più distratto, non potrà non notare una cosa: come
l’uomo si sia perfettamente integrato col territorio, come non lo abbia
stravolto. Piuttosto, come l’uomo sia stato galante e rispettoso di questa bella
donna rocciosa, aprendole la porta, e cedendole il passo. Il paesaggio è
originalissimo. I miei occhi ‘non videro cosa più bella’. Oltre il colore del cielo,
il silenzio rarefatto, ci si perde a macchia d’olio tra questi vigneti ingioiellati tra
i merletti di muri a crudu, che impreziosiscono i custeri in lineamenti
perfettamente e rigorosamente geometrici, fino a risalire sul monte, non
arrendendosi alla roccia, con sacrificio, svettando verso l’alto. Questo stesso
zelo armonico è rispettato anche dalla danza delle vecchie vigne
prefillosseriche ad alberello, che, come nel balletto di “La Bella
addormentata”, vedono la vite avvolta nel virtuosismo di una presa di un pas
de deux, col palo di castagno. All’interno di questo palcoscenico lunare, i
palmenti. Beppe Pappalardo sottolinea come queste vecchie costruzioni
contadine, vere e proprie cantine di vinificazione, edificate con roccia lavica
proprio accanto alle vigne, fossero nient'altro che il desiderio tutto siculo di
custodire gelosamente i propri segreti senza condividerli col ‘vicino di casa’.
Salvo Foti, ancora oggi, ha il vezzo di vinificare nel suo Palmento Caselle
(scelta che, a parer dei più cinici, potrebbe apparire come una mossa un pò
‘furbetta’), per lui invece Bona cantina fa bonu vinu. La sua visione olistica
della vigna, o ancestrale – che dir si voglia -, lo ha portato ad ignorare i ‘no’
burocratici della Nuova Europa. Salvo vuole un vino fatto dall’uomo per
l’uomo.
E questo fascino alla Frankly, my dear, I don’t give a damn, alla fine è
intrigante, non c’è dubbio. Come fai a non perdonare una imprecisione ad un
vino fatto in ‘u parmentu? Solo l’immagine dei pistaturi abbracciati l’un l’altro,
mentre saltano sullo sceccu, è valso il prezzo della bottiglia.
Contrada e stratificazione lavica? Oppure, Contrada o stratificazione lavica.
Confusione. Del resto, eravamo partiti proprio da questo. Dal 1900 ad oggi,
ho contato almeno trentasei eruzioni. Puro magma che ha modellato, come
una matrioska, la pelle di questo paesaggio imprevedibile, rassegnato alle
rughe degli anni. Per ogni colata una ruga, ed un’altra storia da raccontare
per la vigna. Graci afferma che qui il territorio vince sul vitigno, come avviene
per il Pinot Nero in Borgogna, del resto. Credo che in questo lui abbia
ragione, malgrado la mia confusione. Credo davvero che il negrello, come
chiamavano un tempo il Nerello Mascalese, si sia dovuto adattare. Del resto,
la storia di questo vitigno, per forza di cose, lo ha sempre messo di fronte alla
necessità di un cambiamento. Se in Sicilia si volevano un tempo vini da
taglio, perciò concentrati, atti alla navigazione (quindi potenzialmente longevi)
e generosi, ecco che poi negli ultimi venti anni la realtà etnea va alla ribalta,
richiedendo al Nerello Mascalese, per l’occorrenza, di cambiare veste
(dresscode: abito scuro ovviamente).
Il Negrello si è saputo adattare, i produttori meno. Cosa intendo, mi spiego
meglio: è nato prima l’uovo o la gallina? Vale a dire: Contrada? Colate
laviche? Nerello Mascalese? Sperimentazione del Cesanese sull’Etna?
Oppure la corsa all’ “oro nerello” nel Nuovo Eldorado siciliano da parte di chi
mastica poco il catanese?
Non ho una risposta. Mi piace però concludere con una confidenza che mi ha
fatto Beppe Russo stamattina. Ero lì, che lo tormentavo con la mia
confusione, e lui, paterno e cordiale, da buon siciliano, pazientemente
cercava di confortarmi con le sue risposte. Nel farlo, mi ha raccontato che i
primi nove anni della sua vita, viveva in una casetta accanto al loro palmento
a Feudo di Mezzo. Dice Beppe che, sebbene San Lorenzo sia il suo vino più
riuscito e blasonato, per lui l’odore del vino è quello che respirava da
ragazzino, dalla finestra della sua stanza, nel periodo della vendemmia a
Feudo di Mezzo. Se il San Lorenzo, per lui, è il respiro del vino, e sebbene lo
consideri un vino monolite, Feudo è il suo ricordo d’infanzia, quel ricordo che
si stupiva, quasi imbarazzato, di aver confidato a me, per la prima volta
questa mattina, e a nessun altro.
Layout di una sceneggiatura.
Io non ho paura delle contraddizioni. Nel momento in cui non siamo apodittici,
e non ci poniamo come assertori della scienza del vino mondiale, siamo
mobili e fluidi nelle nostre idee e, soprattutto, deleghiamo ai produttori la
responsabilità di “fare asserzioni”, limitandoci ad assumere il ruolo di
ghostwriter. Dobbiamo sempre porci il dubbio. Non c’è chi ha ragione, e chi
ha torto. L’Etna va immaginato come una grande sinfonia sconnessa,
distonica, in contro tempo, dove hai una tradizione apparentemente
millenaria. Beppe Russo e Rosario Pappalardo sono degli intellettuali. Foti ha
fatto un gran lavoro di enologia archeologica; i suoi vini ricordano idealmente
i vini georgiani fatti in anfora. Poi hai pazzi visionari (intendo la“pazzia”, quella
bella) che arrivano dall’esperienza toscana per conquistare la Montagna e
completano questa complessità sinfonica, come una sorta di Vicerè Spagnoli
del 2000 di una regione vinicola che era stata completamente abbandonata.
Poi pensi ai fratelli Scirto, che sono i due nipoti di Don Peppino, lo stesso Don
Peppino a cui De Grazia ha dedicato un vino, e loro si sfanno sfuggire: “ehi,
ma quel Don Peppino era mio nonno!”, come se gli avessero “fregato” il
nonno. Però nello sesso tempo De Grazia e Franchetti, sull’Etna, sono un pò
come il Banfi della situazione, se non ci fossero stati loro non ci sarebbe
l’Etna oggi.
In questa realtà in divenire, dove ci sono due produttori che hanno sbancato
a livello internazionale e sono riusciti a far breccia sul concetto di Etna, è
comunque utile far sapere che a parte Grasso, Calcagno, Russo e Etnella, i
produttori dell’Etna, non sono dell’Etna. Anche Valcerasa, sono Catanesi.
Non so qual è la verità a questo punto, ma è interessante vedere che più lo
studio e più vedo che non trovo una soluzione unica. Non so dire se sia
meglio la contrada o la colata lavica. Mi interessa a livello masnaghettiano
come si costruisce un’identità del territorio, quindi la contraddizione tra De
Grazia, che divide in contrada, e quella di Beppe Russo, che divide per colata
lavica, tutto ciò crea proprio questa discontinuità. Quello che c’è in mezzo, è
quello che a me interessa. Più di uno scienziato, o di un topografo, avremmo
bisogno di Taras Bul’ba (che era un contadino selvaggio della steppa
Siberiana, che faceva da guida al geografo, il quale, grazie a Taras Bul’ba,
capisce molto di più del territorio rispetto a quello che avrebbe potuto
apprendere con gli strumenti che aveva a disposizione).
A prescindere dalle nostre elucubrazioni mentali da addetti ai lavori, ad ogni
modo non si può prescindere dalle “esperienze di viaggio”: bere Vinupetra nel
più fancy winebar di Roma, e berlo a Caselle con Salvo, equivale a bere un
vino identico, eppure irrimediabilmente diverso.
Partire dal territorio, dal viaggio inteso come “movimento” sia intellettuale che
fisico, mi fa scoprire dei territori, delle persone e la relazione che queste
persone hanno con territorio. Ho un’esperienza “ecumenica”. E, a quel punto,
la sintesi di quell’esperienza sul quale metterò il post-it dell’esperienza
gustativa. Il sommelier, invece, non parte dal territorio, ma dalla bottiglia, ne
da una sua valutazione e poi viaggia. È l’appassionato di vino che invece fa
lo sforzo opposto, ed è proprio questo il miglior modo di arrivare al vino”.
L’aneddoto dei fratelli Scirto mi getta un po’ di amarezza. Questa è la
realtà dell’Etna oggi: tuo nonno Peppino ti insegna a fare il vino, perché,
come raccontano loro, da carusi, giocavano in quelle vigne, ed
involontariamente imparavano l’arte del vignaiolo (perché tutte le famiglie
dell’Etna avevano il loro orto e la loro vigna, che dava loro cibo e vino
sufficiente per apparecchiare la tavola). Poi cresci, togli i pantaloncini corti, ti
rimbocchi le maniche e decidi di fare lo stesso lavoro di tuo nonno, che è un
lavoro pesante, che è un mestiere che non vuole fare più nessuno dalle tue
parti. Non lo vogliono fare neanche i tuoi amici, dai quali ti senti dire: “ma che
vuoi andare a zappare la terra?!”, perché fino a venti anni fa, sull’Etna, fare il
vignaron (oggi concetto che rimanda a suggestioni inevitabilmente
seducenti), era andare a “zappare la terra”. Fino a venti anni fa… fino a
quando le grandi aziende vitivinicole, che di certo non erano locali,
annusarono l’affare e cominciarono a giocare al monopoli su à Muntagna; e
non solo si compreranno le terre, ma ti impediranno anche di chiamare il vino
di tuo nonno, col suo nome, perché hanno già registrato ‘loro’ il vino proprio
col nome di tuo nonno. E fu così che i fratelli Scirto, dovettero chiamare il loro
vino non Don Peppinu, ma Don Pippinu…
Poi però parli con Marco De Grazia e con Beppe Russo, che adesso si
tengono a distanza come il diavolo con l’acquasanta e scopri che se non si
parlano più da anni, è per una questione loro del tutto personale che col
“saccheggio” dell’Etna non ha nulla a che vedere. Sarà propio Beppe a
ricordare quanto sia stato un bene per tutti la presenza di Franchetti e di De
Grazia per la crescita enoica dell’Etna, e come tutti e due si siano prodigati
con tutti i piccoli produttori locali per aiutarli a rimettersi in corsa verso i cento
metri del Nerello Mascalese.
Titoli di coda.
Mi sono accompagnata, buttando giù queste righe, con il San Lorenzo 2017.
L’ho voluto riassaggiare con l’idea di risalutare un vecchio amico d’infanzia
che non si ha avuto modo di vedere da un bel pò di tempo, proprio da quella
degustazione sull’Etna dove, tra tutti i vini in degustazione, opinione unanime
era come avesse una marcia in più rispetto agli altri.
Un vino che si può definire appagante. Bellissimo il colore. Riconoscimenti
floreali di viola e rosa canina, sentori di frutti di bosco; suggestioni scure e
garbatamente speziate di chiodi di garofano, due gocce di muschio come
fosse un Coco Chanel N.5 ed una piacevole mineralità che ci fa compagnia
come fosse musica di sottofondo. In bocca pieno, fresco, con una
componente tannica importante perfettamente integrata. Un vino che scorre,
complesso al naso e persistente al palato con note fruttate, rocciose ed un
sottofondo speziato, seguiti da un palato completo con un tannino ben
estratto.