“Niente accade per caso” Chapelle du Clos
C’era una volta un vino mordace… evocativo, no? Suona sempre bene come incipit il c’era una volta. È rassicurante. È una frase che profuma di buono. Era lo ‘yoga’ degli anni ’70, quando alla mia generazione piaceva ancora scrivere la lettera a Babbo Natale, o declamare la poesia imparata a memoria per la festa della mamma. Ormai sono una donna, ma credo ancora alle favole, perchè la vita è quel che vuoi farne tu. La realtà sta alla favola, come il nero sta al bianco: tutti sono talmente convinti che l’una escluda l’esistenza dell’altra, perchè non riescono a cogliere il grigio. La realtà è un bluff. Basta sporgersi appena fuori dalla caverna del mito platonico e ci si accorge come la realtà sia solo una partita a carte truccata. Del resto l’âge des lumières ha fallito, mentre la realtà magica di Isabel Allende e Gabriel García Márquez, ovvero la mia concezione di favola moderna, no. Almeno, così ho codificato la mia resilienza.
L’antica favola persiana i Tre Principi di Serendippo narra di come i tre figli di Jafar, Re di Serendippo, fossero stati inviati dal padre alla scoperta del mondo e, di come, in ciascuna avventura che vissero, ebbero modo di imparare ad allenare il loro istinto e sagacia, applicati alla scheggia impazzita della ‘casualità’. Serendipità vuol dire: “La capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte, specialmente in campo scientifico, mentre si sta cercando altro”. La serendipità ci dimostra, che ciò che apparentemente può sembrare un errore grossolano, alle volte, può rivelarsi un vantaggio; mi piace sempre raccontare di quello chef parigino, che rimproverò duramene il suo apprendista dandogli del ganache, ossia maldestro, per aver fatto cadere, per sbaglio, della panna bollente nel cioccolato nella preparazione della crema. Questo intendo: per la realtà, quel pasticcere era solo un imbranato, ma a livello favolistico era geniale.
La morale della favola? C’è, ovviamente, e sta racchiusa in due frasi che, chi mi conosce bene, mi avrà sentito ripetere una miriade di volte come fosse un mantra: “Niente accade per caso” e “la bellezza è negli occhi di chi sa vederla”. Dom Perignon non ha inventato lo champagne. Ecco, l’ho detto. I vini mordaci, pungenti, naturalmente frizzanti, esistevano già ai tempi degli antichi Romani, i cosiddetti Aigleucos e Acinatici. Virgilio, nell’Eneide racconterà che Bezia ‘Ille impiger hausit spumantem pàtera’, ovvero ’Egli tracannò avidamente lo spumante dalla coppa’. Il merito dell’agronomo benedettino sarà quello di essere andato controcorrente, di aver intuito le potenzialità delle bollicine. Mentre tutti gli altri produttori vedevano nelle bollicine un ‘difetto’, il monaco ebbe la lungimiranza di intuirne un vantaggio. La ripartenza spontanea della fermentazione alcolica, che faceva inspiegabilmente esplodere le bottiglie in cantina, e dava questi vini mousseux, non riusciva ad essere gestita, ma, quantomeno, Dom Perignon riuscì a imbrigliarla. Fu lui ad applicare per primo in Champagne il concetto di basse rese, di cru e di assemblage, valorizzando le peculiarità di ciascun singolo vigneto. E fu sempre lui, nell’era pre-Pasteur, ad avere l’intuizione che, se le bottiglie in cantina esplodevano gravate dalla spinta della pressione atmosferica in essa contenute, sarebbe bastato usare bottiglie più spesse affinché questa forza potesse essere sopportata.
Sperimentare. Provocare. Questo è anche il nostro lavoro quando andiamo in vigna: la prova di botte non serve solo a capire le potenzialità che quel vino avrà in futuro, ma anche ad immagine come quello stesso vino potrebbe essere ‘altrimenti’. Quel giorno, quando fummo ospiti di Madame Cazals, andò esattamente così. Le vigne di Delphine si trovano a Mesnil-sur-Oger, e, più esattamene questa signorona bionda e piena di vita, è la ‘vicina di casa’ di Clos du Mesnil (dissacrante. Lo so…). Abbiamo assaggiato i suoi champagne abusando, come al solito, della sua ospitalità. Ad un certo punto ci fa assaggiare il vino di cui più era orgogliosa e che più la rappresentava. Io ed Alessandro ci cerchiamo con lo sguardo. Mi vede perplessa. ‘Che ne dici?’ Incalza subito. Ed io, rilancio arricciando il labbro. Non sono convinta. Il dosaggio non mi convince. Ecco allora che Alessandro provoca Delphine, dicendole: “Ma non hai valutato l’idea di far uscire questo champagne senza liqueur?”. Lei lo guarda, esita un secondo, e poi ci dice di seguirla in cantina. Ecco che cosa intendo per la favola. Ecco che cosa intendo per serendipità. Il marito ci sbocca à la voile Chapelle du Clos 2008, e ci riempie i bicchieri. ‘Ora, meglio?’. ‘Sì, ora meglio. Vogliamo 800 bottiglie di Chapelle du Clos esattamente così, non dosate. E… non mi ci mettere neanche i solfiti. Le farai solo per noi”.
Queste sono le favole che piacciono a me.
E vissero tutti felici e contenti.
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