L’appuntamento era alle otto di mattina. Ricordo che abbiamo attraversato il
viale dei cipressi che ci avrebbe portato alla Tenuta di San Guido col
cardiopalma, ovvero la stessa emozione che deve aver provato Grosso alla
finale dei Mondiali del 2006 contro la Francia, all’Olympiastadion di Berlino.
Esattamente come lui, dovevamo gestire quell’adrenalina in modo lucido,
composto, come le buone maniere e la sacralità imposti dall’etichetta
richiedevano. Forse perché erano le prime ore del mattino e tutto attorno a
noi sembrava ancora sbadigliare, trasognante, come se si fosse appena
risvegliato da un lungo sonno, eravamo travolti da una irragionevole paura di
arrecare disturbo e, involontariamente, i pochi che ruppero quel silenzio
assordante, lo fecero quasi bisbigliando, sussurrando.
Entrammo all’interno di una costruzione colonica fatta in pietra ed in legno,
dove solo da una vetrata ci era dato intravedere la barriccaia. Rimanemmo
stipati in quella sala, minuta ed intima, chiusi nel perimetro di un grande
tavolo di cristallo che occupava buona parte dell’ambiente, con la sensazione
che lì fosse tutto così delicato, come quel cristallo, come quel vetro, e che la
nostra presenza, maldestramente, avrebbe mandato tutto a pezzi solo
sfiorando quella fragile finezza.
Ricordo che siamo rimasti lì compassati, ingessati, come quando la domenica
a messa si attende che il parroco distribuisca l’ostia eucaristica, ed i fedeli
silenziosamente sfilano, l’uno dopo l’altro, per poi adagiarsi
sull’inginocchiatoio, congiungere le mani e tenere gli occhi chiusi fino a che
quella sottile cialda non si sia completamente sciolta in bocca.
Era tutto così “Toscano” per me. Per rendere l’idea: se nel mio immaginario il
produttore Friulano mi fa venire in mente il Conte di Montecristo, i Langaroli il
Barone Rampante ed i Trentini i Demoni, la Toscana mi suggerisce la
frivolezza e l’Alta Società di Orgoglio e Pregiudizio. La viticoltura in Toscana
è figlia della mezzadria, dei signorotti che non si sono mai sporcati le mani di
terra, del vino “pettinato”, sempre rigorosamente elegante in qualunque
occasione. Proprio per la loro “estrazione sociale”, i vini toscani, molto spesso
sono stati il frutto di un capriccio, di uno spirito di contraddizione, e, forse,
proprio per la leggerezza di aver preso il vino poco seriamente, la maggior
parte delle volte proprio da quei capricci hanno preso forma i vini icona del
nostro panorama enologico, perchè hanno saputo avere la sfrontatezza di
non voler dimostrare niente a nessuno che li ha resi invincibili nella loro
squisita perfezione.
Da qui, ammetto sia il mio orgoglio, che il mio pregiudizio.
Ci viene servito Sassicaia 2009. Impacciatamente abbiamo afferrato quel
bicchiere dal tavolo di cristallo e sono convinta che ciascuno di noi si sia
chiesto, tra sé e sé, se prima di allora avesse mai bevuto del vino rosso con
ancora il sapore in bocca del cappuccino della colazione appena consumata
e non ancora digerita. Io non so gli altri, ma di certo io me lo sono chiesta, e
mi sono risposta che a prescindere dall’orario, quel Sassicaia lo avrei bevuto,
come se in quell’ambientazione da sagrestia mi stessi bevendo il sangue di
Cristo.
Ed eccolo lì, il Sassicaia 2009: al naso inizialmente tradiva con delle
suggestioni di rovo ed erba cotta, poi si è lasciato andare, e più si apriva, e
più era evidente il frutto maturo e succoso, i richiami balsamici, una
speziatura prima dolce di cannella, poi più scura di chiodi di garofano. In
bocca lo ricordo intenso, quasi cremoso e vibrante nella sua acidità, con un
tannino che si arricciava un po’, in chiusura.
Proprio in quel silenzio statico e quasi condensato da tagliarsi con la punta
della lama, vengo distratta da un singhiozzo sommesso, dignitoso, contenuto.
Era Daniela, poco distante da me. Sebbene si fosse ritratta, volgendo il viso,
cercando di nascondersi, per non far cogliere quel momento di debolezza che
l’aveva sopraffatta, tutti colsero quel suo momento di commozione. Ricordo
che disse solo: “la 2009 è l’ultima annata di Tachis”. Fino ad allora non
sapevo che lei fosse così affezionata a Giacomo Tachis, che li legasse una
profonda amicizia, ma in quel momento non solo ho restituito a Daniela un
aspetto umano, ma ha confortato allo stesso tempo quel mio lato umano,
forse troppo dannatamente umano, che faccio fatica a mettere da parte. Io e
Daniela, alla fine, non eravamo poi così diverse, come quel silenzio non era
più così ingombrante, ma cerimoniale ed incensato.
Di Giacomo Tachis mi ha sempre intrigato il suo nome: dal greco tachýs,
veloce. Affascinante come il suo nome gli calzasse a pennello come una
scarpa fatta a mano disegnata da un raffinato artigiano inglese. Lui, che si
definiva un “mescolavino”, in realtà è stata la penna più rivoluzionaria ed
innovativa che ha scritto a livello paradigmatico le nuove linee del
Rinascimento Italiano del vino. Nasce in Piemenonte, ad Alba, figlio di un
operaio tessile dal modesto salario e mamma casalinga; proprio ad Alba
compie gli studi di Enologia. Ammetterà di essere stato sempre uno studente
irrequieto, di certo non il primo della classe; probabilmente la sua vivacità
intellettuale, il suo genio estroso, esattamente come Eistein, lo facevano
sentire poco stimolato dalla preparazione accademica. Del resto Giacomo era
un appassionato della cultura classica con la spirito pratico del contadino che
scandisce il ritmo della sua vita allo stesso ritmo della campagna.
“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno
gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore
dei vestiti, chi non parla a chi non conosce”, diceva Neruda.
Mi hanno raccontato che Tachis amava molto trascorrere il tempo nella sua
biblioteca, rileggendo i passi dei suoi classici preferiti e come, proprio da quelli,
sembrasse trovare le risposte che cercava in chiave moderna. Giacomo
Tachis: il guru, il santone, la leggenda, il mito, un’icona ed il taumaturgo della
nostra enologia? Per i suoi amici era Mino, punto e basta, di professione
“umile mescolavino”, come lui stesso amava definirsi, “che ha raccolto un bel
po’ di libri, ne ha letto più di qualcuno, che ama l’archeologia e la musica e
che ha sempre pensato che il vino debba essere semplice e naturale. Tutto
qui”.
Giacomo metterà la sua firma sul Sassicaia, il Tignanello, il Solaia. Giacomo
non era un amante del Sangiovese, ed i suoi vini nascono da suo questo suo
non andarsi a genio col figlio prodigo toscano; per questa sua avversione
uscirà dal disciplinare del Chianti Classico, riconciliandosi poi col Sangiovese
fedele al suo stile, ovvero ritraendolo sulla tela seguendo non i dettami del
realismo, ma secondo il suo gusto decisamente Dadà. Sara ancora sua la
paternità del Turriga, del San Leonardo, da erede spirituale qual era di
Peynaud, ponendosi come il maître de chai del taglio bordolese Italiano.
Sempre Giacomo sarà il primo a fare uso della fermentazione malolattica,
come fu il primo ad usare le barriques ma che, con grande onestà
intellettuale, definì “la cipria o il rossetto per le labbra delle donne: un trucco”,
ammettendo poi che “Il vino deve essere buono di suo. Non deve, e non può
diventare migliore, o più interessante, solo per il passaggio in barrique, che
oggi sono diventate spesso una moda. Le ho adottate per la prima volta con il
Sassicaia, dopo una lunga ricerca sulla chimica del legno. Altro elemento vivo
e quindi difficile da governare…”
Probabilmente Tachis non venne compreso, all’inizio, proprio per questo suo
bipolare intercedere tra genio e sregolatezza, per il suo carattere
apparentemente burbero. Non venne capito quando parlò di vino del povero e
di vino del ricco, ad esempio, eppure lui stesso dirà: “La cosa non fu capita. Il
vignaiolo ha fatto sempre il vino che sente. Quello del benestante, invece,
nasce da vitigni qualificati, perizia tecnica, travasi, microfiltrazioni. Niente di
più che una semplice constatazione, la mia. Che tuttavia non mi ha salvato
dall’accusa di aver messo in discussione le conquiste dell’enologia…”. Il suo
curriculum sembra tradirlo, ma di fatto, Giacomo voleva fare dei vini quanto
più genuini possibili. “Non potrei concepire una natura senza l’uomo, e quindi
l’archeologia, la musica, il vino”.
Quel giorno, a Tenuta San Guido, Daniela mi ha ricordato Giacomo… e la
terra di Carducci, non mi è sembrata mai così albese.
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