I detrattori dell’anfora sembrano avere una visione minimalista: “anfora:
fenomenologia modaiola prêt-a-porter”. I sostenitori dell’anfora rilanciano con
una visione massimalista dove l’anfora è un valore immutabile in quanto
rimanendo fedele a se stessa nei secoli, non tradisce il genio della sua
modernità antica. I Ricorsi storici.
IL CONCEPIMENTO DEL VINO
Il vino georgiano: seduzione di un concetto astratto ed inimmaginabile.
Il vino ha “passaporto” Georgiano. Il fascino di questa affermazione?
Immediato e molteplice. E’ affascinante che per quanto ci possiamo sforzare,
non abbiamo immaginazione a sufficienza per collocarlo temporalmente tra il
10000 a.C. ed il 9000 a.C.. Ci seduce fare un ulteriore sforzo: il vino non è
Italia, non è Francia, neppure Grecia… il vino esisteva ancor prima che si
delimitassero i confini, quando non si parlava di Stati, ma di un lembo di terra
tra il mar Nero ed il mar Caspio. Cosa ci seduce inoltre? Il fatto che sebbene
non riusciamo ad immaginarci il 10000 a.C., sebbene un Romano di oggi sia
profondamente diverso da un Romano dell’Impero, alla stregua di quanto un
tedesco del 2021 sia diverso da un Africano, il vino non sia cambiato affatto.
Il vino è il simposio, i baccanali. E’ vino quello dato a Polifemo, come quello
bevuto nelle Corti Medioevali. E’ vino il sangue di Cristo, come vino era
l’alimento liquido per i contadini. Il vino è il premio, la celebrazione,
l’ebbrezza. E’ l’illusione della consolazione alla disperazione. Il vino è una
Pangea, una sorta di famiglia allargata. Il vino è Caravaggio come
Michelangelo, è Boccaccio e Dante, è il sangue di Cristo, è Bukowsky come
Churchill, è una commedia di serie b come un premio Oscar.
Ci seduce che sia originario della Georgia perchè nessuno sa dove sia la
Georgia, dove sia il Caucaso. Dare confini, confina anche la nostra
seduzione: la Georgia è tra la Turchia, l’Armenia, l’Azerbaijan e la
Russia. Dalla seduzione, allo stupore: il vino non è mediterraneo.
L’ANFORA COME MODA O CICLO VICHIANO?
L’anfora non come recipiente, ma come Genius Loci
Anfora, dal greco “che si porta da entrambi i lati” . Sfilate di anfore nei
musei etruschi, romani o greci che sono ancora meno stimolanti dell’arte
concettuale: nell’arte concettuale intuisci che la Fontana di Dechamp non è
quello che sembra, ovvero un orinatoio, ma vuole significare qualcosa di più,
mentre in un museo di arte antica abbassiamo la guardia e cadiamo nel
tranello che un’anfora sia soltanto un utensile un pò datato. Il vino è una
scoperta casuale, l’anfora è invece frutto del genio umano. Non è causale il
materiale di cui è fatta, la sua forma, le sue decorazioni.
Le anfore greche, come quelle Romane, erano per lo più di terracotta. La
forma appuntita della parte inferiore era stata pensata per mantenerle in
posizione verticale sia nella sabbia della cantina, come nelle stive delle
navi.
L’interno dell’anfora era lavorato con pesce e resine, e l’imboccatura chiusa
con un tappo di sughero ricoperto di pece, argilla o mastice. L’annata, come il
nome del produttore o del vino, per noi concetto tanto moderno, era riscritto
nella parte esterna, assieme a decorazioni figurative. L’anfora era
probabilmente un concetto più moderno e all’avanguardia del vino stesso
dell’epoca.
IL VINO DELLA TRADIZIONE E QUELLO MODERNO
L’anfora dunque non è un’invenzione enologica moderna come
l’acciaio, tuttavia il vino non è forse un concetto moderno?
Il vino infatti è, per certi versi, un concetto moderno. C’è l’epoca pre-Pasteuer
(ossia il passaggio dalla presa di coscienza empirica a quella scientifica del
lavoro dei lieviti) a quella post-Pasteur. Gli Antichi Romani sono stati
rivoluzionari per aver intuito molto più agilmente di noi che alcune uve
producevano un vino migliore delle altre, e non solo, che alcune zone erano
più vocate delle altre. Prima il vino era dolce, mordace: la fermentazione
era del tutto incontrollata ed ingestibile. Il vino veniva dunque tagliato con
sale, acqua marina, resina e gesso. Si era soliti nobilitarlo con il miele o
aggiungendo aromi al mosto. I vini più pregiati invece non venivano trattati,
ma impreziositi col defrutum, ossia un mosto concentrato in grado di
aumentare la gradazione di uno o due gradi alcolici, e aromatizzato
sottoponendolo ad una vera e propria infusione con estratti di erbe, miele,
legni profumati, essenze vegetali, mirra, assenzio profumi e rose. Il vino
veniva fermentato, stoccato e trasportato nei dolium, ovvero le anfore
romane.
LE ANFORE GEORGIANE
La cultura della vite in Georgia.
In Georgia il vino aveva, ed ha, uno stile molto diverso da nostro. Lo stile di
vinificazione non ha subito il fascino dell’enologia moderna, ma è rimasto
fortemente identitario, al punto da essere disorientante per i bidimensionali
del vino per i quali esiste solo bianco e nero, mentre si può incorrere il rischio
di idealizzarli per i tridimensionali del vino, rapiti più dal fenomeno che dalla
sostanza.
Sconosciute ed impronunciabili le varietà autoctone saperavi vanis
chkhaveri, otskhanuri sapere e dzelshavi per il vino rosso, mentre per il
bianco si ottiene vino dalle uve rkatsiteli, tsiska, tsolikouri, krakhuna, mtsvane
kakhuri e mtsvane khikhvi.
Qui si è rimasti fedeli alla fermentazione all’interno di vasi di terracotta, i
cosiddetti Qvevri, seguendo uno stile tutto personale a seconda della
regione, quella khakhetiana e quella imeretiana. Il metodo “Kakheto”,
utilizzato nella Georgia orientale, prevede l’utilizzo nel mosto delle vinacce
(chacha in georgiano) complete di bucce, vinaccioli e raspi; il metodo
“Imereti” della zona occidentale, prevede invece l’utilizzo solo di una piccola
parte (circa il 10%) di bucce e di vinaccioli senza i raspi; il Il processo di
vinificazione, identico per tutti i metodi, impone che, dopo una soffice
pigiatura, il mosto sia messo nei Qvevri.
Altra differenza è che i marani, ovvero le cantine, nella regione di Kakheti
sono fatte in pietra, in Imereti, invece, il basamento è in legno, e i grandi vasi
di terracotta sono posti sottoterra, ma all’aperto e non in cantina. Per la
vifinicazione le uve sono versate dentro le navazze, in vecchi recipienti di
legno detti satsnakeli. Prima di pigiare l’uva, sul fondo della navazza si
dispongono le lasti (specie di griglia in vimini intrecciati), sulle quali si
mettono delle ciaduna (foglie di felce) per lasciare fluire il mosto. La pigiatrice
è collocata sulla navazza. Il mosto che ne cola è raccolto nei recipienti di
fermentazione, ossia i kvevris (che differiscono dal dolium romano per
essere destinati all’interramento fino al collo, privi di manici in quanto non
utilizzati per il trasporto); non sono smaltati ma ricoperti all’interno da un
sottile strato di cera d’api per contenere l’evaporazione e lo scambio con
l’ambiente esterno, e dopo essere stati avvolti esternamente con uno strato di
calce, sono poi interrati.
La fermentazione alcolica inizia spontaneamente e si protrae per circa una
decina di giorni in cui il Qvevri rimane aperto per consentire all’anidride
carbonica di fuoriuscire dal recipiente, infondendo una spinta al cappello in
modo da favorire l’estrazione dei polifenoli e delle altre componenti presenti
nelle vinacce. La temperatura di fermentazione viene controllata
naturalmente per via dell’interramento.
A fermentazione conclusa, le vinacce si depositano sul fondo restando, solo
in piccola parte, grazie alla particolare forma del Qvevri, a contatto con il vino.
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